Economie iperlocali e regionali: è davvero morta la globalizzazione?

Si definiscono Paesi sviluppati quegli Stati che presentano economie avanzate, elevati redditi pro capite e un alto indice di sviluppo umano.

Sinonimi di “Paese sviluppato” sono “Paese avanzato” e “Paese postindustriale”. Il termine industrializzato non è sufficiente a definire un paese sviluppato, in quanto questo necessita di un terziario preponderante e, come dicevamo, di un elevato indice di sviluppo umano.

La pandemia di Covid-19 ad oggi sta mietendo maggiori vittime e impattando maggiormente sui sistemi sanitari proprio di quelle regioni che presentano i valori migliore degli indicatori socio-economici, come ad esempio la qualità della salute. Evidentemente il BES, l’indice di benessere equo e sostenibile, vada rivisto e, in particolare, per ciò che riguarda il dominio “salute”.

Lo stato sostanziale di congelamento dell’economia mondiale e le restrizioni dettate dai principi di sicurezza hanno impattato in particolare sui settori dei trasporti, del turismo, del tessile e dell’agroalimentare, a dimostrazione che un’economia sempre più globalizzata e interconnessa è molto più vulnerabile di quanto si possa pensare. Se in questo periodo voglio un mango che viene dalla Nuova Zelanda mi rassegno e magari compro kiwi autoctoni, se la mia filiera necessita di un prodotto che viene fatto solo dall’altra parte del mondo che, così come il nostro paese, è sottoposto ad un severo e imprescindibile lockdown, allora mi tocca chiudere e aspettare che la situazione migliori. Oppure riconverto in fretta il mio modo di produrre.

“Così come l’abbiamo conosciuta, è morta e sepolta. Dobbiamo prendere confidenza con il termine glocal. Io sono coinvolto in un progetto Ue propedeutico al Green deal della presidente Ursula von der Leyen: le Bioregioni, aree anche sovranazionali con particolare omogeneità e vocazione industriale, agricola, culturale. Stiamo delineandone i confini per valorizzare le attività, le produzioni, gli scambi all’interno”. Sono le parole di Jeremy Rifkin a proposito di una supposta fine della globalizzazione, nata con la Rivoluzione Industriale, ma già in nuce durante il capitalismo mercantile del XXVI secolo, e arrivata, sembrerebbe, al capolinea.

Occorre, quindi, fare un ragionamento sul medio e lungo termine: bisogna ripensare il concetto di filiera lunga e a conferire maggiore importanza alle filiere economiche locali, al commercio di prossimità, ai prodotti e servizi a Km zero, soprattutto durante le fasi di graduale apertura delle singole categorie commerciali ed economiche.

Un altro elemento di riflessione è quello che riguarda la sostenibilità del nostro sistema sociale e produttivo ed eventuali correlazioni con il coronavirus: il WWF, ad esempio, ha pubblicato uno studio dove viene evidenziato come le cosiddette malattie emergenti (Ebola, AIDS, SARS, influenza aviaria, influenza suina, coronavirus) non sono eventi catastrofici casuali, ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali.

In ogni caso è innegabile che vivere nella regione, la pianura Padana, tra le più inquinate d’Europa, rende più vulnerabile il nostro apparato respiratorio.

Sono questi i presupposti da cui ripartire per pensare ad un paradigma economico più attento alle questioni sociali ed ambientali. Ripartire in modalità “business as usual” significa iterare le condizioni propedeutiche a nuove pandemie.

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