Un appello ai Southworkers. Visione post-pandemica di una comunità da costruire

Southworking: una definizione, una vision, un progetto nato in questi ultimi mesi e che vede nel lavoro agile dal Sud nuove prospettive per il futuro del lavoro e dei territori italiani. E in questa definizione ci ritroviamo, forse, in molti.

Si prospetta come un nuovo modo di concepire le città e il lavoro, ben lontana da quello a cui siamo stati abituati in epoca pre-covid. Lavoro, intendiamoci, intellettuale. Lavoro per il quale non è necessaria la presenza fisica, per il quale non è necessario “mettere le mani in pasta”, per quei lavori esclusivamente digitali dove basta un pc per essere in ufficio. Lavori svolti da professionisti, spesso freelance, spesso meridionali, migrati al Nord per opportunità e convenienza, tornati a casa dopo mesi di quarantena.

E così le nostre case di famiglia al Sud, ampie, soleggiate, accoglienti e luminose, si sono trasformate nei nostri nuovi uffici. Abbiamo ripreso le abitudini che avevamo lasciato qui da studenti: un bagno al mare a pranzo, una corsetta sulla litoranea, la birra al chiosco con gli amici di una vita.

(Adesso) non c’è posto migliore per lavorare.

Si potrebbe in questo modo riequilibrare lo storico e annoso divario tra Nord e Sud, dicono. Tornare a far girare l’economia meridionale tutto l’anno e non solo durante le vacanze.

Io non ci credo.

Non credo che lavorare da casa di mamma e papà in Sicilia per sviluppare progetti per il Nord sia una leva per lo sviluppo del mio territorio.

Sono una rigeneratrice urbana e un’innovatrice sociale. Mi sono formata a Palermo, poi a Venezia e poi a Bologna, dove in questi ultimi tre anni lavoro e, a periodi alterni, abito.

Ho sempre avuto l’obiettivo e l’ambizione di tornare a casa, nel mio territorio, nella mia Bagheria, per provare, con le mie competenze e la mia volontà, a innescare qualche scintilla di cambiamento per una vera innovazione culturale, sociale e urbana.

Non ci sono ancora riuscita, lo ammetto. E non ci riuscirò probabilmente fin quando non tornerò a lavorare al Sud, per il Sud.

In questi mesi catartici ho sperimentato il Southworking, ma anche il Northworking. Lavoro da Bologna per Bagheria e da Bagheria per Bologna.

Semplice non è. Soprattutto quando, con la mente a Bologna, e gli occhi e il cuore in Sicilia, vedo intorno a me tanta bellezza sgretolarsi nelle mani di amministrazioni obsolete e fatiscenti che tutti questi “talenti di ritorno” non li sanno accogliere e sicuramente non li sapranno o non li vogliono trattenere.

Siamo tornati. È estate, “lu suli, lu mari, lu ientu”, non c’è posto migliore dove stare. Abbiamo necessità di rivedere le nostre famiglie, i nostri amici, i nostri luoghi. Ma quanto durerà? Quanto resisteremo?

Le nostre città hanno bisogno di noi non solo con gli occhi e il cuore, hanno bisogno di noi con la testa. Hanno bisogno delle nostre competenze e del nostro lavoro qui, qui dove vorremmo tanto stare, qui dove abbiamo necessità di ricostruire una comunità, qui dove il nostro lavoro serve più che altrove.

Il lockdown ci ha cambiati, la pandemia ci ha cambiati, ma non è così semplice (come scrivono in molti) da un giorno all’altro pensare e decidere di lasciare il nostro posto di lavoro, chiudere un contratto, una valigia e tornare a casa. Per fare cosa, ci chiedono i nostri genitori. Ce lo chiediamo anche noi. Immaginare di tornare, da soli, e ricominciare da zero.

Forse abbiamo bisogno di costruire qualcosa di nuovo per il nostro territorio. Forse abbiamo bisogno di ritrovarci e immaginare insieme il nostro futuro, tra Nord e Sud.

Elisabetta 

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